La quinta stagione mette un punto alla serie cult con Penn Badgley: tra ossessioni, giustizia e colpi di scena finali
Fin dal primo episodio era chiaro il motivo per cui Netflix avesse puntato tutto su YOU: al pubblico piacciono i cattivi, soprattutto se hanno il volto familiare di attori come Penn Badgley, ex idolo teen di Gossip Girl. Il racconto dello stalker colto e seduttivo aveva incuriosito, ma col passare delle stagioni si era trasformato in qualcosa di diverso: una spirale sempre più surreale, con Joe Goldberg perso tra delitti e scelte di scrittura sempre più forzate. Ora, dopo anni di crimini rimasti impuniti, la serie arriva alla fine definitiva, provando a chiudere i conti — narrativi e morali — con il suo protagonista.
Da eroe per sbaglio a mostro romantico
La quinta stagione si apre con un Joe apparentemente redento, tornato a New York al fianco della potente Kate Lockwood, in quella che sembra una nuova vita pulita. La fedina penale è immacolata, i fantasmi del passato sembrano rimossi. Ma bastano pochi episodi per capire che il lieto fine è un’illusione. L’ingresso in scena di Bronte (interpretata da Madeline Brewer) rompe l’equilibrio: è lei il personaggio chiave che riporta a galla i peccati del passato. La sua missione è precisa: guadagnarsi la fiducia di Joe per incastrarlo, restituendo giustizia a Beck, la donna della prima stagione, uccisa brutalmente e poi fatta sparire anche nella memoria collettiva.
Bronte riesce a ottenere da Joe una confessione, lo costringe a riscrivere il manoscritto di Beck, eliminando ogni intervento manipolatorio che ne aveva distorto la voce. È il primo vero momento in cui il protagonista si confronta con il male compiuto e ne prende coscienza. Una resa che arriva tardi, ma arriva.
Il finale di stagione e l’ultima condanna
Alla fine, Bronte lo incastra. Joe, ormai alle strette, la implora di ucciderlo piuttosto che lasciarlo vivere nel rimorso e nella prigione dei suoi crimini. Ma la giustizia arriva comunque. E con lei anche una riflessione scomoda. Mentre sconta l’ergastolo in isolamento, Joe riceve centinaia di lettere d’amore, testimonianza del fascino che continua a esercitare, anche dopo tutto ciò che ha fatto. È qui che la serie spinge il pubblico a interrogarsi: chi è davvero il colpevole? Joe, o chi ha continuato a seguirlo, a simpatizzare per lui, a romantizzare i suoi delitti?
Il dubbio si insinua, forte e disturbante. Joe si domanda se il problema sia lui, o noi spettatori, pronti ad assolvere ogni mostro se ben scritto, se carismatico, se narrato con intelligenza. Gli sceneggiatori chiudono YOU con una domanda invece che con una risposta: quanto siamo complici nella mitizzazione del male?
Una chiusura provocatoria, forse la più onesta
YOU si conclude lasciando una critica esplicita alla cultura popolare, a quella tendenza tutta contemporanea di trasformare i serial killer in icone, di renderli protagonisti affascinanti, quasi giustificati. Un meccanismo che ha portato casi reali, come quello di Luigi Mangione, ad attirare folle di fan e follower, più che indignazione.
Il merito della stagione finale è proprio questo: riportare il focus sul punto di partenza, senza assolvere il protagonista. Joe Goldberg non esce da eroe, né da martire. Esce da colpevole. E YOU, almeno nell’ultima scena, non chiede più empatia, ma consapevolezza.